È molto diffusa, purtroppo, la convinzione che gli abusi edilizi e le relative sanzioni possano essere cancellati per effetto del semplice decorso del tempo. Si tratta, in verità, di convinzione largamente infondata.
Certamente, sul piano penale, non è ipotizzabile che si debba rispondere di illeciti edilizi risalenti ad epoche lontane, se commessi da altri – magari un proprio ascendente – ed, in ogni caso, è facile ipotizzare che si verifichi la prescrizione, per effetto del trascorrere del tempo, tenuto conto che per questo tipo di reati il termine prescrizionale comincia a decorrere dal momento in cui è cessata l’attività edilizia.
Si aggiunga anche, come ha affermato la giurisprudenza, che in mancanza di prova della data di consumazione del reato – in questo caso l’abuso edilizio, più precisamente, la fine dell’attività edilizia abusiva – si applica Il principio del favor rei, in base al quale “nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole all’imputato” [tra le tante, Cassazione penale, sez. III, 14 febbraio 2019 n. 7038].
È tuttavia necessaria una particolare cautela. Infatti, in tema di reati edilizi, qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce una ripresa dell’attività criminosa originaria, che integra un nuovo reato, anche se consista in un intervento di manutenzione ordinaria, perché anche tale categoria di interventi edilizi presuppone che l’edificio su cui si interviene sia stato costruito legittimamente [Cassazione penale, sez. III, 17.07.2020 n. 27993];
Lo Studio Legale Di Meo di Avellino, si occupa frequentemente, e con successo, di questo genere di vicende, in sede penale. Tuttavia, ovviamente, un abuso edilizio non rileva solo sul piano penale, ed anzi, per il cittadino comune può essere persino più complicato affrontare e risolvere le questioni burocratiche ed amministrative. Anche su questo tema, per altro, l’Avv. Ferdinando G. Di Meo ha maturato una solida esperienza.
Pare comunque opportuno sgomberare il campo dall’equivoco iniziale, ossia, quello del trascorre del tempo come soluzione del problema, sia pure con le dovute precisazioni. In particolare, è noto che soltanto a partire dal settembre 1967, per effetto della c.d. Legge Ponte, fu generalizzato per l’attività costruttiva l’obbligo di acquisire un atto di assenso da parte del comune. Fino ad allora l’obbligo era limitato ai soli centri abitati. Successivamente, con la L. 47/85 fu introdotto l’obbligo di indicare all’interno dell’atto di compravendita immobiliare, a pena di nullità dell’atto, gli estremi della licenza di costruzione. L’indicazione degli estremi della licenza, può essere sostituita da una una dichiarazione, del proprietario o altro avente titolo, che attestanti che l’opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967.
Tuttavia, l’attestazione dell’epoca della costruzione da parte del proprietario, per gli immobili realizzati prima del 1967, rileva sul piano strettamente civilistico, nel senso che condiziona la commerciabilità del bene, rendendo l’atto di negoziazione immobiliare valido ed efficace. Diverso, invece, è il discorso sul profilo amministrativo degli eventuali abusi. Sebbene, infatti, ai fini della validità dell’atto notarile, ha senso la dicitura “ante 1 settembre 1967“, ciò non vale per l’aspetto amministrativo, risultando in ogni caso applicabili le sanzioni relative alla tipologia dell’eventuale abuso commesso.
In altre parole, se la costruzione di un fabbricato risulti avviata prima del 1967, l’atto resterà sicuramente valido, ma l’abuso sarà legittimamente perseguibile dalla P.A., ove per l’edificazione fosse necessario un titolo abilitativo.
In mancanza di titolo autorizzativo rilasciato dal comune, se si tratta di edifico posto al di fuori del centro abitato, diventa dunque determinante dimostrare che l’immobile è stato realizzato in epoca anteriore al 1967.
Sul punto, per altro, è bene ricordare che la giurisprudenza ha chiarito che spetta “al proprietario (o al responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione, l’onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento ad epoca anteriore alla c. d. Legge Ponte n. 761 del 1967 [Consiglio di Stato, sez. VI, 19.10.2018 n. 5988].
Si è anche precisato che “la prova in questione deve essere poi improntata a particolare rigore ed è in particolare escluso che siano una prova idonea le dichiarazioni sostitutive […]” [Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2018 n. 1391].
In altri casi, per altro, ci si è ispirati a criteri di maggior moderazione, stabilendosi che “la prevalente opinione giurisprudenziale ammette tuttavia un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima del 1967 elementi non implausibili (la dichiarazione sostitutiva di edificazione ante 01.09.1967) e, dall’altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio” [Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016 n. 3177].
Come ben si comprende, dunque, la situazione è comunque di non facile gestione, e talvolta può raggiungere livelli addirittura paradossali. Può infatti accadere che un immobile, indipendentemente dalla sua abusività, sia registrato al catasto e che, persino, sullo stesso siano state pagate le relative imposte. Ciò, tuttavia, contrariamente a quanto generalmente si pensa, non mette al riparo da problemi.
Infatti, un immobile è catastalmente in regola quando vi è corrispondenza tra i dati catastali e lo stato di fatto, ma ciò non implica necessariamente anche una regolarità urbanistica, perché il Catasto [Agenzia del Territorio] ha una funzione di natura prettamente fiscale.
In sostanza, il Catasto non è “probatorio” e non dimostra alcunché rispetto alla regolarità edilizia dell’immobile. Paradossalmente possono quindi esistere immobili abusivi ma accatastati, perché un immobile è urbanisticamente in regola quando vi è corrispondenza tra lo stato di fatto ed il titolo abilitativo con cui il comune ha autorizzato la realizzazione dell’immobile.
Vi è per altro da rilevare che non di rado è la stessa autorità comunale, inerte magari per decenni, ad ingenerare la convinzione che la risalenza nel tempo dell’abuso lo renda non più perseguibile.
La giurisprudenza ha tuttavia stabilito che “la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata” [Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 17.10.2017 n. 9].
Resta tuttavia una possibile via di uscita, nei limiti in cui, comunque, ad opera di una parte della giurisprudenza, si ritiene possa ugualmente assumere rilevanza il legittimo affidamento del privato ingenerato dalla stessa amministrazione. Si è così stabilito che di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato, come potrebbe accadere quando il Comune, per esempio, abbia autorizzato un intervento di manutenzione sull’immobile abusivo.
Ciò, si badi bene, nulla toglierebbe all’eventuale carattere abusivo dell’immobile, ma potrebbe essere significativo sotto un diverso profilo. Si è infatti chiarito che la “risalenza nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio integrano, complessivamente considerati, altrettanti parametri oggettivi di riferimento da valutare, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero da dover indurre il comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico attuale al ripristino dello stato dei luoghi”. [Consiglio di Stato, 4 giugno 2018 n. 3372].
Tuttavia, è stato molto recentemente ribadito che “di affidamento meritevole di tutela si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato, e non già nel caso in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa” [da ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 21.12.2020 n. 6322).
In conclusione:
in materia di abusi edilizi, generalmente il trascorre del tempo non risolve i problemi. Ma se al trascorrere del tempo si aggiunge una condotta del comune competente, che pur se messo compiutamente a conoscenza dei termini della questione, genera un affidamento sulla legittimità della posizione dell’interessato, tale legittimo affidamento può essere meritevole di tutela e l’amministrazione dovrebbe compiutamente valutare la persistenza di un interesse concreto ed attuale alla demolizione dell’opera abusiva.
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