In altri tempi ed in un diverso contesto politico e sociale, il recente caso di cronaca giudiziaria che ha visto come involontario protagonista il più longevo esponente politico italiano – per alcuni perenne vittima del sistema, per altri satanica impersonificazione del male – avrebbe avuto ben altre implicazioni e risalto mediatico, mentre oggi si è trattato solo – si fa per dire – di una notizia come un’altra, buona per la prima pagina di qualche giornale e di qualche trasmissione televisiva “interessata”, per comprensibili motivi aziendali, ovvero, per un’assai più meschina “riconoscenza” o servilismo politico.
Ma veniamo ai fatti. Nell’agosto del 2013 il noto politico fu condannato in via definitiva per frode fiscale. Una condanna che – come si è fatto notare – confermava i verdetti del primo e del secondo grado. Per effetto della condanna, il Senato della Repubblica ne dichiarò la decadenza, con la successiva sempre maggiore marginalizzazione sullo scenario politico. Dunque, un caso esemplare, auspicato o temuto – dipende dai punti di vista – in cui l’esercizio del potere giurisdizionale ha avuto diretti ed irreversibili effetti politici, ovvero, come altri direbbero, ha invaso la sfera della politica.
Ciò che per altro interessa in questa sede non è né prendere posizione a favore degli uni o degli altri, né riesumare l’ormai stantio tema del conflitto d’interessi, o, per converso, della legittimazione popolare, come salvifico strumento di purificazione o sanificazione di ogni e qualsiasi curriculum personale o politico. Pare doveroso lasciare la cronaca e la polemica politica ad altra sede ed ai professionisti della materia.
Assai più interessa, invece, esprimere qualche breve considerazione sulle implicazioni sistemiche, o, meglio ancora, sul “non detto” della vicenda, alla luce di quanto emerso in questi giorni sui media. In effetti, secondo quanto si legge, parrebbe che qualche mese dopo la sentenza della Cassazione del 2013, il magistrato relatore del collegio avrebbe raccontato come quella sentenza gli apparve eterodiretta, parlando di una sorta di plotone di esecuzione per eliminare l’imputato dalla scena. Quelle parole sarebbero state registrate da qualcuno che era presente a quel colloquio e sono state diffuse ora, dopo la morte del magistrato. Il rischio di buttarla in politica è evidente, ma, ancora una volta, non è questa la sede e comunque la politica non rileva ai fini di chi scrive.
Al contrario, il nodo centrale, si direbbe culturale, è del tutto diverso. Il comune lettore o telespettatore, spesso scarsamente smaliziato, nell’ascoltare il racconto di vicende giudiziarie che coinvolgono personaggi politici, necessariamente forma il suo convincimento, pro o contro il politico ovvero il magistrato, in funzione di due fattori. L’uno, ovviamente, è legato ed è espressione delle sue inclinazioni, della sua sensibilità, dei suoi valori, dei suoi ideali od interessi. L’altro – e questo non sempre viene colto – dipende dal modo in cui la notizia gli viene posta, dall’impostazione del racconto, dall’enfasi o dalla dissimulazione, consapevole o meno, dell’uno piuttosto che dell’altro particolare. In sostanza, dunque, esiste ineludibilmente una sfera soggettiva, un approccio personale ed individuale, sia in chi scrive o racconta, sia in chi legge o ascolta. Ovviamente, il comunicatore intellettualmente onesto consente al suo interlocutore un più o meno ampio spazio per la rielaborazione autonoma del dato comunicato, lasciando abbastanza individuabili e separabili i dati fattuali dalle interpretazioni degli stessi e dalle opinioni. Così come l’ascoltatore od il lettore, nella rielaborazione del dato comunicato, riserva o dovrebbe riservare al dato fattuale la giusta centralità, formando la sua opinione su quello e non sulle opinioni altrui.
Questo processo di formazione e di trasmissione della conoscenza, è intuitivamente assai più complesso quando non si stratta, puramente e semplicemente, di comunicare o di ricevere la comunicazione, ma di ricostruire una verità processuale, che si vorrebbe oggettiva e pura, ma che necessariamente non potrà mai esserlo in senso assoluto ed ideale. Senza volersi lasciare andare a considerazioni fllosofiche che meriterebbero ben altre competenze, è intuitivo che la verità processuale non è mai e non può essere la verità assoluta ed oggettiva, sia perché la tecnica e la dinamica processuale è governata ed influenzata dalle parti, e quindi da interessi, che possono prevalere, per abilità o anche solo per casualità, sia perché l’esperienza concreta deve essere ovviamente ricostruita, descritta, rivissuta, raccontata. Tutto, quindi, è condizionato dalla prospettiva di chi racconta o ricostruisce, con l’ulteriore significativa implicazione – trattandosi di vicende giudiziarie – che la capacità ricostruttiva richiede una specifica competenza tecnica che consenta di ricondurre il percepito fattuale, ma pur sempre soggettivo, in una cornice normativa, anch’essa solo apparentemente oggettiva.
Se questi dunque appaiono essere i termini della questione, più facilmente si può comprendere di cosa si sta discorrendo. Il tema, infatti, è l’ipocrisia di un’idea della funzione giurisdizionale immaginata e “venduta” come artefice della verità assoluta, sacra, inviolabile. Non esiste tribunale terreno che ricostruisca ed accerti verità diverse da quelle che le parti consentono di accertare, che il giudice è posto in grado di capire, o, in sistemi scarsamente democratici, altri hanno imposto di sancire. Ma, in ogni caso, non si tratterà mai – sia pure a causa di minimi particolari – della verità assoluta.
Ed allora, dire che nella vicenda processuale da cui si è partiti – quella del noto politico di cui sopra – ci sia o ci sia stato un determinato modo di percepire o ricostruire, orientato soggettivamente, è riflessione clamorosamente ovvia. Così come ovvia e scontata è la strumentalizzazione che si fa di quanto viene raccontato sui media, per scopi e fini politici, tanto evidenti a chi solo abbia rispetto per le proprie capacità intellettive.
Altro sarebbe la volontaria e consapevole strumentalizzazione della funzione giudiziaria a fini politici, ovvero, l’asservimento della stessa ad interessi, pressioni, od altro. Si è ben consapevoli che questo è ciò che spesso viene percepito dal cittadino comune, ma questa è patologia giudiziaria, sia pure probabilmente non rarissima. E non sta a chi scrive dire se questo è il caso.
Tanto, per altro, è sufficiente a segnare il netto ed inequivocabile dissenso rispetto alla propensione di taluni esponenti della magistratura a considerare la stessa sostanzialmente intoccabile, immune, per dono divino, da vizi e censure che si vorrebbero prerogativa esclusiva di altri, specie se avvocati. Considerare gli avvocati come un problema, un peso, un intralcio per la giustizia, è tipica espressione di un anacronistico autoritarismo giudiziario che privilegia la ricerca della facile legittimazione popolare e delle masse rispetto alla legittimazione del diritto, che pur nella sua interpretazione ed applicazione soggettiva, ed, anzi, doverosamente soggettivizzata, in primo luogo alla luce di un’interpretazione evolutiva dei canoni costituzionali – in luogo di un fredda, impersonale ed “aritmetica” prassi applicativa – costituisce, anche grazie agi avvocati, l’unica via accettabilmente percorribile.
Il resto è solo politica ed ipocrisia
Scrivi un commento