Quali sono le tutele per il coniuge o per il convivente che ha lavorato nell’impresa familiare?
Il diritto di famiglia, in particolare separazioni e divorzi, ma anche la gestione dei rapporti familiari con riferimento ai figli nati fuori dal matrimonio, costituisce una delle materie sulle quali lo Studio Legale Di Meo di Avellino sta sempre più concentrando la propria attività.
In questo ambito, un profilo particolare riguarda l’impresa familiare, la sua gestione, e, soprattutto, la sorte dei rapporti sviluppatisi all’interno della stessa, con specifico riferimento ai diritti del coniuge, ma anche del convivente more uxorio.
L’impresa familiare ha una specifica regolamentazione nel codice civile, ed in particolare nell’art. 230 bis c.c.
Questa norma prevede, tra l’altro, che “il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
La stessa norma prosegue stabilendo che “le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa”.
Il comma 3 dell’art. 230 bis c.c. stabilisce cosa si intende per impresa familiare e per familiare, specificando che i familiari sono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, mentre l’impresa familiare è quella cui collaborano, appunto, il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Quel che salta subito all’occhio, per altro, è il mancato riferimento nell’art. 230 bis c.c., al convente more uxorio che di fatto si trovi nella stessa identica posizione del coniuge. Ciò pare in netta contrapposizione con il mutuato costume e la sensibilità sociale, ma anche con gli sviluppi normativi e giurisprudenziali, che sempre più tendono verso un’ampia assimilazione, sia pure non generalizzata, delle due condizioni.
Si tratta, a ben vedere, di una situazione che per lo più coinvolge le donne, mogli o conviventi che siano, che al di fuori dell’ipotesi dell’instaurazione di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, spesso collaborano con ed all’interno dell’impresa familiare, senza avere piena consapevolezza dei propri diritti, e nel caso di rottura o di definizione per qualsiasi ragione del vincolo familiare, possono trovarsi in grave difficoltà, ritenendo erroneamente di essere indifese e prive di forme di tutela, anche rispetto all’impresa familiare.
Recentemente, infatti, è stato sottoposto allo Studio Legale Di Meo di Avellino, un caso che coinvolge questa disciplina, nell’ambito di un procedimento di separazione, nel quale si è riusciti ad tutelare e soddisfare, davanti al Tribunale di Avellino, i diritti della moglie, proprio con riferimento all’impresa familiare facente capo al marito, gestendo l’intera situazione attraverso una separazione consensuale, anche se il procedimento era stato avviato come separazione giudiziale.
Tuttavia, profili di problematicità restano quanto alla posizione del convivente more uxorio, sempre in tema di impresa familiare, in quanto, come detto, l’art. 230 bis c.c non fa riferimento espresso al convivente, anche se il successivo art. 230 ter c.c. prevede che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”.
Sul punto, per altro, è intervenuta la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 18 gennaio 2024 n. 1900.
La Corte di Cassazione, infatti, ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale, dichiarando rilevante e non manifestamente infondata – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., all’art. 9 CdfUe ed all’art. 117, comma 1 Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 Cedu – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis c.c.
Il profilo sul quale la Corte di Cassazione individua il possibile vizio si ricava dai commi 1 e 3 della disposizione da ultimo citata.
In effetti, al primo comma, è previsto che “il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”.
Il terzo comma, poi, stabilisce che “ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.
Non risulta quindi incluso nel novero dei familiari il convivente more uxorio.
Spetterà dunque alla Corte Costituzionale decidere se tale esclusione è conforme o meno al dettato costituzionale.
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