Cassazione penale, sez. II, sent. n. 3684 del 26.01.2017.
Nel caso in cui nel decreto di citazione diretta a giudizio davanti al Tribunale non sia contenuto l’avviso della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, l’omissione dell’avviso non può determinare alcun pregiudizio irreparabile per l’imputato, non incorrendo lo stesso in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio, nei limiti temporali in esso stabiliti.
Diversa, infatti, era la fattispecie processuale che ha costituito oggetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 201/2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 460 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. “nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna debba contenere l’avviso all’imputato che ha facoltà di chiedere la sospensione del procedimento per messa alla prova unitamente all’atto di opposizione”. La Corte aveva infatti rilevato che il complesso dei principi, elaborati da questa Corte, sulle facoltà difensive per la richiesta dei riti speciali non può non valere anche per il nuovo procedimento di messa alla prova. Per consentirgli di determinarsi correttamente nelle sue scelte difensive occorre pertanto che all’imputato, come avviene per gli altri riti speciali, sia dato avviso della facoltà di richiederlo, in quanto, ove egli non proponga la relativa istanza nell’atto di opposizione, la stessa diverrebbe poi inammissibile in sede di giudizio. Ma la medesima esigenza non si pone nel caso di citazione diretta a giudizio, per le ragioni innanzi esposte.
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