Quello del consulente tecnico è un ruolo delicato ed importantissimo, spesso determinante per l’esito del giudizio. Non di rado intricate vicende processuali possono essere chiarite solo grazie all’intervento di questo ausiliario del giudice, che se preparato e motivato, può talvolta svolgere, direttamente od indirettamente, anche una funzione conciliativa. Non sempre, tuttavia, i consulenti tecnici vengono scelti secondo criteri di capacità e competenza, e non sempre sono dotati di quel bagaglio di conoscenze tecniche indispensabile per affrontare ed illustrare al giudice che lo ha incaricato, problematiche spesso molto complesse.
Accade addirittura, talvolta, che il consulente tecnico diventi egli stesso il problema, o, meglio, indirettamente, la causa dei problemi della parte. È quello che è avvenuto in una vicenda processuale su cui è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale di Avellino. In particolare, durante un giudizio per il riconoscimento di una misura assistenziale, venne nominato un consulente tecnico affinché verificasse l’esistenza delle relative condizioni sanitarie. Il ricorrente/paziente, dunque, venne sottoposto a visita medica, e, successivamente, venne depositata la consulenza tecnica, redatta secondo i canoni non sempre impeccabili degli elaborati prodotti in questo settore. L’esito, in ogni caso, era sfavorevole al ricorrente, che in effetti si vide respingere il ricorso.
Indomito, e di pari imprudente ed impudente, il ricorrente contattò telefonicamente il consulente tecnico, per rappresentargli il suo disappunto. Quegli, tuttavia, sentitosi a suo dire minacciato, comunicò l’accaduto al giudice che lo aveva nominato. Dal che nacque un’ulteriore vicenda processuale, in quanto il ricorrente fu rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 336 c.p.
L’Avv. Ferdinando G. Di Meo, assunta la difesa, ha fatto emergere l’inesistente portata intimidatoria della frase pronunciata, ma, vieppiù, ha focalizzato l’attenzione su di un punto nodale, in considerazione del capo di imputazione contestato. In effetti, l’art. 336 c.p., al comma 1, testualmente prevede che “chiunque usa violenza o minaccia un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”. Nel caso di specie, tuttavia, il consulente tecnico, che certamente rivestiva la qualifica di pubblico ufficiale durante lo svolgimento del suo incarico, aveva ormai esaurito il suo compito, non dovendo egli più svolgere alcuna attività al riguardo, come confermato anche in sede dibattimentale.
Logica conseguenza di quanto innanzi, era ed è che al momento in cui intercorse la discussione “incriminata”, egli non rivestiva più la qualifica di pubblico ufficiale, e, quindi, certamente, all’imputato non poteva essere contestato il reato di cui all’art. 336 c.p. Al più, si sarebbe potuto discorrere del reato di cui all’art. 612 c.p. (minaccia), che tuttavia, quanto al comma 1, è perseguibile a querela di parte, nel caso di specie non proposta.
La difesa dell’Avv. Di Meo, dunque, concludeva con una richiesta di assoluzione, puntualmente accolta dal Tribunale di Avellino, con la formula “perché il fatto non sussiste”. Si resta in attesa del deposito della motivazione.
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